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I classici da rivedere#17: meglio cattivi ma liberi di scegliere

del Prof. Lucio Celot

I Classici da rivedere #17

Meglio cattivi ma liberi di scegliere

Arancia Meccanica (S.Kubrick, 1971)

La storia di Arancia meccanica è nota: in una Londra distopica e corrotta, il giovane Alex, protagonista e narratore, guida una banda dedita a “ultraviolenza, stupro e Beethoven”. Arrestato dopo uno dei suoi crimini, diventa la cavia della “cura Ludovico”, un trattamento sperimentale che dovrebbe impedirgli di compiere ulteriori violenze. Ma le cose non andranno come il governo si aspetta.

Il celebre primo piano di Alex DeLarge che apre Arancia Meccanica

Una costante del cinema di Kubrick è la ricerca della contraddizione, soprattutto tra Natura e Cultura. All’istinto della sopraffazione l’uomo oppone regole che si rivelano inadeguate o controproducenti. Così accade in Orizzonti di gloria (ordine militare e dignità umana), in Barry Lyndon (classi sociali ed eguaglianza), in Lolita (eros e convenzioni). In Arancia meccanica il conflitto è tra la pulsione naturale alla violenza e la difesa repressiva della società, incarnata dal Ministro, dai medici, dai poliziotti. Ma nessuno dei rimedi offerti dalla Cultura risolve il problema: sembra che l’uomo sia incapace di sciogliere il contrasto con la propria natura.

La cerniera della vicenda è la “cura Ludovico”, che condiziona Alex chimicamente e fisicamente a rigettare ogni forma di violenza. Si tratta di una vera “lobotomia degli istinti”: il protagonista è costretto a guardare, fino alla nausea, filmati di stupri, pestaggi e atrocità naziste, mentre un farmaco gli provoca dolori e conati. Col tempo il corpo impara ad associare il male alla sofferenza fisica. Ma poiché le immagini sono accompagnate da Beethoven, anche la musica, prima esaltante, diventa per Alex insopportabile.

Alex sottoposto alla “cura Ludovico”

Se nella prima parte domina la pulsione naturale, la libido che sfocia nella violenza (il vecchio barbone, la famiglia Alexander, la signora dei gatti), nella seconda e terza parte prevale la pulsione opposta, culturale: la ragione sociale, l’apprendimento coatto. Il Potere elimina la capacità di scegliere tra bene e male, trasformando l’individuo in strumento funzionale a sé. È il punto più radicalmente anti-utopico del romanzo di Burgess: Alex non fa più il male, ma non è nemmeno in grado di operare scelte morali. Senza libero arbitrio non c’è più umanità.

Mentre Alex è sottoposto alla cura, il governo riprende il controllo: i suoi vecchi compagni diventano poliziotti, i barboni lo aggrediscono, le vittime si vendicano, i genitori lo rifiutano. Alex rivive la spirale della violenza, ma a ruoli invertiti: da carnefice a vittima. Solo quando, dopo il tentato suicidio, il trattamento viene annullato, il Potere sceglie di “riabilitarlo” per servirsene: la sua violenza torna utile al sistema. Nel finale – diverso da quello del romanzo, con il famoso “capitolo 21” – Alex diventa protetto e salariato del Ministro. Si suggella così l’alleanza tra la violenza individuale e quella istituzionale: l’orrore diventa legge.

Un elemento peculiare del romanzo di Burroughs è anche il Nadsat, il particolare linguaggio inventato di Alex e dei drughi: un miscuglio di russo, slang e deformazioni linguistiche. Parole come droog (compagno), horrorshow (“ottimo”), devotchka (ragazza) o karasciò (“ok”) creano una lingua giovanile artificiale, segno di ribellione e cifra stilistica unica.

Kubrick, nelle interviste, ha chiarito perché Alex lo affascinava tanto. Egli rappresenta l’inconscio, l’uomo allo stato naturale: dopo la cura diventa “civilizzato”, ma nevrotico, come nevrotica è la società che lo ha plasmato. Nonostante la sua malvagità, lo spettatore prova una strana identificazione con lui: Alex è onesto nel suo racconto e, a livello inconscio, porta in superficie pulsioni che tutti condividiamo. Come Riccardo III o altri personaggi negativi, ci attrae perché rimanda alla nostra sfera pulsionale, a ciò che Freud avrebbe chiamato Es. Kubrick lo riassume così: “Io uso Alex per esplorare un aspetto della personalità umana. Alex compie azioni che sappiamo essere sbagliate, eppure veniamo irretiti da lui. Come in un sogno, il film chiede che il giudizio morale sia sospeso. Forse, nel nostro inconscio, siamo tutti degli Alex in potenza.”

Ed è proprio qui che sta la forza disturbante di Arancia meccanica: usciamo dalla sala come dopo un sogno inquieto. Sappiamo di non essere Alex, ma non possiamo ignorare che un frammento di Alex è dentro di noi.

Stanley Kubrick e Malcolm McDowell sul set del film

Arancia Meccanica (A Clockwork Orange)

Regia: Stanley Kubrick

Distribuzione: USA-UK 1971 (col., 136 min.)

                       

 

Un pensiero su “I classici da rivedere#17: meglio cattivi ma liberi di scegliere

  • PAOLO NEVOLA

    Per me il capolavoro assoluto resta “Barry Lyndon”, di quattro anni dopo. E non tanto per letture di tipo “sociologico” e politico, quanto per una poetica dell’immagine e della musica (indimenticabile la colonna sonora) che, in contrasto con i toni oggettivi e freddi della voce narrante (cio’ che rende, se possibile, ancora piu’ incisivo l’effetto finale) sviluppano, ancora una volta, l’eterno tema dell’impossibilita’ di portare a compimento ogni progetto umano di fronte all’ineluttabilita’ del destino, contro cui e’ vano opporsi. Sembrerebbe banale, ma il tutto e’ reso superbamente seducente dal lento scorrere delle inquadrature, soprattutto quelle dei primi piani (indimenticabili le scene del bacio tra Barry e lady Lyndon al suono dell’op. 100 di Franz Schubert e quella, drammaticamente conclusiva, di Bullington e della madre, sempre sullo stesso brano musicale), inquadrature rese con l’uso di un lume quasi caravaggesco, (o forse alla maniera dei “caravaggeschi” francesi Le Nain e de la Tour). Non me ne voglia il valoroso collega, ma e’ questa la mia, personale gerarchia all’interno dell’opera del sommo Stanley.

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