Giuseppe Montesano: l’indicibile oscenità di Eternapoli- Di questa vita menzognera, Feltrinelli 2003
del Prof. Lucio Celot
In un saggio intitolato Le due Napoli, Domenico Rea, l’autore di Spaccanapoli, individua due “canoni” a proposito degli scrittori che hanno raccontato Napoli: uno (l’antimodello) è quello di Di Giacomo, della Serao e di De Filippo, autori che, a parere di Rea, pur di fronte alla dimensione tragica che assume la storia di Napoli soprattutto nella prima metà del ‘900, non riescono a restituire la realtà “nuda e terribile” dei vicoli e della plebe napoletani. Secondo Rea, il linguaggio di Di Giacomo è aulico e lontano da quello parlato, così come lontani dai vicoli in cui vivono e soffrono appaiono le donne e gli uomini raccontati dall’autore di Assunta Spina; allo stesso modo, né la Serao né De Filippo (in particolare quello di Napoli milionaria) sono stati in grado di “trasfigurare” l’autentica e reale carica di angoscia che pervade il cuore antico e popolare della città: ne esce una Napoli elegiaca e malinconica, lirica e consolatoria, da cui l’autentico dolore è volutamente tenuto fuori.
A questo antimodello, Rea contrappone il canone che comprende quegli autori che non solo hanno saputo riprodurre la realtà ma anche trasfigurarla restituendo tutta intera la carica drammatica che accompagna la vita del popolo partenopeo: Boccaccio (la novella di Andreuccio da Perugia è una summa della condizione della plebe napoletana), Basile e Viviani sono gli archetipi letterari su cui Rea costruisce la propria narrativa, pervasa dall’idea e dall’immagine dell’ombra e della sofferenza, più che da quella della luce, della festa o della gioia.
Di tutto questo, Matteo Palumbo, professore emerito di Letteratura Italiana alla “Federico II”, non solo ha scritto (qui il suo saggio Domenico Rea, la tradizione letteraria e Spaccanapoli) ma anche parlato recentemente durante la lezione tenuta nell’ambito del ciclo di incontri “Napoli come un romanzo” al Teatro Bellini. Al termine della lezione, alla domanda del pubblico su chi possono essere considerati gli eredi e i continuatori di quel canone, Palumbo ha fatto i nomi di Roberto Saviano (Gomorra, il libro) e di Giuseppe Montesano.
E proprio Di questa vita menzognera di Montesano (napoletano, traduttore, critico, romanziere, scrive su diverse testate e riviste tra cui “Il Mattino” di Napoli) è il romanzo cui Palumbo faceva riferimento, un libro del 2003 che ho riletto proprio sotto la suggestione dell’illuminante lezione.
Di questa vita menzognera, vincitore del premio Viareggio, racconta i fatti e i misfatti della famiglia Negromonte, un vero e proprio clan di imprenditori (padre-padrone anziano in carrozzella a motore, figli, nuore, generi e nipoti) che, in una Napoli ormai allo sbando e allo sfascio totali, nel tentativo di trovare nuove forme di arricchimento e di accumulazione, ha la folle idea di trasformare l’intera città in una sorta di parco a tema, Eternapoli, in cui gli stessi napoletani saranno chiamati a recitare se stessi o a rappresentare momenti significativi della storia partenopea. La voce narrante, stralunata e incredula, è quella di Roberto, un giovane borsista che, in nome della Bellezza e dell’Inutile, lascia l’incarico all’università e accetta di fare da segretario a Carlo Cardano (marito e mantenuto di Amalia Negromonte), un dandy patetico e malinconico che cita continuamente Baudelaire e tenta, a suo modo, di arginare la volgarità e il kitsch che lo circondano a palazzo Negromonte. Contro i colpi di mano dei fratelli Negromonte, che grazie ad amicizie in alto loco riescono a privatizzare l’enorme patrimonio artistico-archeologico di Napoli, tenteranno una strenua resistenza non solo il povero e afflitto Cardano, ma anche il fratello pecora-nera dei Negromonte, Andrea, anima candida e tragica in mezzo a una famiglia di lupi affamati e predatori, e un misterioso gruppo di giovani ribelli capeggiati da un archeologo che si ostina ancora a credere nel Bello. Tra pranzi luculliani (Montesano è bravissimo a descrivere gli eccessi del banchetto pasquale con il gusto dell’iperbole e strizzando l’occhio a Petronio e al suo Trimalcione), istitutori privati che tentano invano di elevare il livello culturale dei rampolli di famiglia, improbabili ricostruzioni in cemento armato degli antichi monumenti di Neapolis (l’Anticaglia e il primo policlinico vengono rasi al suolo per lasciare spazio ad un nuovo Anfiteatro), Montesano racconta la megalomania e il delirio di onnipotenza di una classe dirigente populista e demagogica, senza storia, senza passato né cultura, mossa esclusivamente dal demone del profitto e priva di ogni senso della misura. Una classe dirigente, va detto, che parla alla pancia di una plebe acefala che osanna l’homo novus, quello che promette, ora come allora, panem et circenses attraverso slogan che fanno intravedere sogni e futuro di libertà e ricchezza.
La tanto decantata fine della storia di cui scrivevano saggisti e politologi dopo la caduta del Muro si rovescia, nel romanzo di Montesano, in un perenne carnevale, nel tripudio dell’assenza collettiva di pensiero, in una nuova forma di sovranità (ricordo che il libro è uscito quindici anni fa!) in cui l’apparente libertà di ognuno altro non è che la schiavitù di tutti: E’ furnuta l’uguaglianza, è furnuta ‘a libbertà! Pe’ vuje so’ dulure ‘e panza! E vualà, e vualà, càvece ‘nculo ‘a tutte quante!, scandisce come in un mantra la voce dei Negromonte, i nuovi re di Napoli, quelli che sì, hanno fatto la vera rivoluzione.
Chissà se riuscirà lo sparuto manipolo di ribelli a sopravvivere alla sarabanda infernale e amara che conclude il romanzo: non lo sapremo mai, li vediamo in fuga affannosa verso il mare, forse dalle parti di Santa Lucia, sferzati dal vento e dall’odore delle alghe, privi di speranza, inseguiti dall’eco della Voce del nuovo Potere, ipnotica e martellante: E vualà, e vualà, càvece ‘nculo ‘a libbertà!
Gli altri romanzi di Giuseppe Montesano:
Nel corpo di Napoli, Mondadori 2000;
A capofitto, Mondadori 2001;
Magic people, Feltrinelli 2005.