Lo straziante capolavoro di Isao Takahata – La tomba per le lucciole (I.Takahata, 1988)

di Andrea Fusco (IIIE)

Quando si parla di Studio Ghibli ai più verrà subito in mente il nome di Hayao Miyazaki, uno dei più grandi maestri nel campo del cinema d’animazione, spesso ribattezzato “il Disney giapponese” a sottolinearne la statura artistica. In pochi sapranno, però, che il creatore dell’ormai cult La Città Incantata (2001) non è l’unica mente geniale dietro gli svariati capolavori dello studio di Tokyo: il cofondatore del Ghibli, Isao Takahata, è ad oggi considerato un artista di altissimo spessore, se non alla pari dell’amico-rivale Miyazaki.

La filmografia di Takahata è permeata da due spiriti apparentemente opposti, che però in diverse occasioni si sposano perfettamente nelle scelte registiche. Per certi versi, infatti, è possibile ascrivere lo sceneggiatore al filone del cinema neorealista per la cura nel descrivere scene di vita quotidiana, per l’attenzione nel rappresentare determinate dinamiche sociali, calate in un preciso contesto storico, alla cui base vi è una visione drammatica e cruda della realtà. D’altro canto, i mondi di Takahata sono spesso pervasi da simbolismi ed elementi di natura meravigliosa che trascendono il reale, creandone una dimensione alternativa in cui rifugiarsi.

Paku-san (soprannome affettuoso datogli dai colleghi) è stato spesso riconosciuto per la sua meticolosità, quasi ossessiva, nel proprio lavoro, tanto da essere definito da Toshio Suzuki, produttore dello studio Ghibli, “una persona difficile con cui lavorare”. Per un’accurata rappresentazione del reale, che si trattasse di paesaggi o del contesto storico, il regista si è spesso ritrovato in situazioni assurde, come accadde per la serie Heidi: Takahata organizzò un viaggio in Svizzera, mirato allo studio delle alpi, in cui trascinò con sé tutto il suo team. Altro esempio è il caso di La Tomba delle Lucciole, per la cui realizzazione fu utilizzata una bomba incendiaria disinnescata al fine di studiarne i componenti, dal momento che nella pellicola sarebbero stati rappresentati i bombardamenti di Kobe del 1945.

Credo sia essenziale, per conoscere il cinema di Takahata, trattare nello specifico quest’ultimo lungometraggio, considerato da critica e pubblico, nonché da Miyazaki stesso, il suo capolavoro. La Tomba delle Lucciole (Hotaru no haka, 1988), tratto dall’omonimo racconto semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka, è il film che più incarna lo spirito ambivalente della cinematografia di Takahata. La narrazione ha inizio con la struggente dichiarazione del fantasma di Seita, uno dei due protagonisti: “La sera del 21 settembre 1945 io morii”. Già dal prologo, dunque, è messo in chiaro l’amaro andamento della trama, che non concede allo spettatore speranza alcuna per il destino dei ragazzini protagonisti. Segue poi un lungo flashback che racconterà la storia di Seita e Setsuko, fratello e sorella che, rimasti orfani a causa delle atrocità della guerra, proveranno in ogni modo a sopravvivere in una realtà ostile.

Il tono drammatico pervade l’atmosfera del film fin dai minuti iniziali, in cui la cittadina di Kobe subisce il primo di numerosi bombardamenti: Takahata dipinge perfettamente la disperazione e la morte che serpeggiano per il paese, il cui cielo si tinge di tutte le tonalità di rosso e nero. Tra le alte fiamme, che inghiottiscono le macerie delle case, e le strazianti urla d’aiuto dei propri compaesani, Seita non potrà far altro che mettere in salvo la sorellina, abbandonando la madre al proprio destino. A seguito della strage, ormai orfani, i due saranno inizialmente ospitati da una zia, fedele alla causa imperialista giapponese, che, per avarizia e poca premura verso i nipotini, li lascerà andar via di casa, considerandoli solamente due bocche in più da sfamare. Ormai senza neanche un tetto sulla testa, Seita e Setsuko saranno costretti a combattere per sopravvivere, trovandosi un rifugio provvisorio in una grotta e patendo la fame. Già dall’incipit si può comprendere il messaggio che Takahata vuole trasmettere: la stessa morte prematura dei protagonisti, il raccapricciante dipinto di una Kobe in fiamme e la crudeltà della zia nei confronti dei due nipoti rappresentano la denuncia degli orrori della guerra, che miete vite innocenti e inasprisce quelle di chi è invece sopravvissuto, pronto a sacrificare l’altro pur di non morire. Si può affermare quindi, senza alcun dubbio, che la pellicola di Takahata sia un’opera antibellicista e antinazionalista, che mette in luce le macabre ombre della disumanità di certe cause, le quali trascinano milioni di persone, spesso senza possibilità di scelta, in una spirale di sofferenza.

Il ritmo della trama, con l’avvicinarsi del finale, è scandito da due eventi che si ripetono periodicamente: i bombardamenti e i fantastici incontri notturni con le lucciole. Entrambe caratterizzate a schermo da un vivido colore rosso, le sequenze si contraddistinguono per il significato simbolico che portano con sé. Gli attacchi aerei che, come richiamo alla dimensione reale, tengono in continua tensione i due protagonisti, costretti a una maturazione forzata, nonostante l’età, per sopravvivere in un mondo ostile, sono in netta contrapposizione con gli episodici incontri con le lucciole che, portatrici di luce nella loro oscura esistenza, donano loro momenti di spensieratezza ormai perduti, che si traducono in un simbolico rifugio dalla propria condizione precaria. Il motivo per cui entrambe le scene sono rappresentate con lo stesso colore, seppur opposte nel significato, va ricercato nello stesso titolo del film: per scrivere la parola “lucciola” sono stati utilizzati i kanji “hi” (fuoco) e “tarenu” (caduta). A chiarire cosa stiano a significare questi “fuochi in caduta” vi è l’emblematica frase della piccola Setsuko che, con le lacrime agli occhi, scavando una piccola tomba nel terreno per delle lucciole morte, singhiozza: “Non è giusto. Perché le lucciole muoiono così presto?”. Con questa toccante domanda, in cui le lucciole non sono altro che un’allusione all’essere umano, Takahata intende riflettere sulla caducità della vita e sull’ingiustizia della morte prematura di persone innocenti (come la madre dei due ragazzini) per cause di forza maggiore. Ed altrettanto ingiusto è vedersi strappati via quei momenti di serenità che non torneranno indietro, consci del fatto che nessuna fuga dalla dolorosa realtà (come le serene notti passate a giocare con le lucciole) potrà mai proteggerci per sempre da essa. Questo perché ogni lucciola, persona o felicità che sia, è destinata a morire, e quindi a tingersi dello stesso rosso dei fuochi che inghiottirono Kobe nel 1945.

Nei minuti finali del film i fantasmi dei due bambini, dall’alto di una collina, posano lo sguardo sulla loro Kobe, ormai divenuta una grande metropoli del tempo presente. Si evince, qui, un’altra aspra critica di Takahata al passato del suo Giappone: la ricostruzione del paese, dopo la fine della guerra, è andata avanti senza tener conto anche dei soggetti più deboli della società, quali potevano essere degli orfani, come Seita e Setsuko, lasciati indietro, in preda al proprio rovinoso destino. 

In conclusione, il genio di Takahata si mostra, nel film, in tutte le sue sfaccettature: da apprezzare, in particolare, i riferimenti al cinema neorealista per l’ambientazione storica e per le critiche sociali, accompagnati però da quella quota fantastica e simbolica che caratterizza lo Studio Ghibli anche quando affronta le tematiche trattate con un cupo pessimismo, tratto caratteristico di uno dei più grandi maestri dell’animazione giapponese.

 

Una tomba per le lucciole (Hotaru no haka)

Regia: Isao Takahata

Distribuzione: Studio Ghibli, Giappone 1988 (anim., col., 93’)

 

 

 

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