I Classici da rivedere #12 “Mi chiamo John Ford. Faccio western” Sentieri selvaggi (J.Ford, 1956)
del prof. Lucio Celot
Non poteva certo mancare, in questa disorganica e molto personale proposta dei “Classici da rivedere” di Pausacaffè, il cinema western, il genere che ha fatto la storia del cinema classico; e, tra i western, non poteva mancare il più complesso e citato tra i film di chi di questo genere è uno dei Maestri riconosciuti, John Ford, il Dio-Padre del cinema della Frontiera. Autore di più di centotrenta film, nato un anno prima del cinema, aiuto-regista di David Griffith, cioè dell’inventore del cinema narrativo, Ford ha superato indenne il triplice passaggio dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dal formato normale al cinemascope mantenendo sempre una totale indipendenza rispetto alle major hollywoodiane che nessuno è mai riuscito a scalfire.
Perché proprio Sentieri selvaggi? Perché non, ad esempio, Ombre rosse o L’uomo che uccise Liberty Valance? Perché The Searchers, ben prima di quanto farà il “western revisionista” della New Hollywood con film come Corvo Rosso non avrai il mio scalpo o Piccolo Grande Uomo, smaschera tutta l’ambiguità del mito della frontiera e dell’eroe senza macchia e senza paura che di quel mito era stato il protagonista e l’emblema assoluto; perché è l’opera di Ford in cui emergono meglio e più evidenti che altrove le dicotomie tipiche del western e tutta la violenza implicita nel mito della nascita di una nazione; e perché, infine, in Sentieri selvaggi la figura dell’eroe, più che altrove, si carica di significati, allusioni e contraddizioni irrisolte che fanno del film un’autentica summa dell’intera filmografia fordiana.
1868: tre anni dopo la fine della guerra di secessione tra gli stati abolizionisti del Nord e quelli schiavisti del Sud (1861-1865), Ethan Edwards (John Wayne, l’attore-feticcio di Ford in più di venti film qui al suo meglio) ritorna nella casa del fratello e della cognata Martha: è uno sconfitto, ha combattuto nelle file dei Sudisti, è carico di livore e odio paranoide nei confronti dei nativi “pellerossa” che minacciano le famiglie dei coloni e non nasconde pulsioni razziste perfino nei confronti di Martin, un giovane mezzosangue che Ethan stesso aveva salvato da morte certa e affidato alle cure di Martha. Fin dalle prime inquadrature e dagli sguardi tra i due, capiamo che Ethan è stato ed è ancora innamorato della cognata, da cui si era coscientemente allontanato per non turbare la vita familiare del fratello; quando la banda del capo Cheyenne Scar massacra orribilmente tutta la famiglia, Martha compresa, e rapisce la piccola Debbie, Ethan inizia un’accanita ricerca (da qui il titolo originale della pellicola) della nipote insieme a Martin che durerà ben cinque anni. Il celebre finale, che chiude circolarmente la storia con la stessa inquadratura liminale con cui si era aperta, vede Ethan nuovamente restituito a quell’esistenza nomadica da cui aveva inutilmente tentato di uscire.
È un cinema delle dicotomie e delle opposizioni, quello di Ford, che racconta la “grande mutazione” americana del passaggio dal nomadismo alla stanzialità proprio attraverso una serie di antinomie che in The Searchers sembrano perdere i loro netti confini per confondersi e ribaltarsi l’una nell’altra: nativi/pionieri, impulso stanziale/nomadismo, Deserto/Giardino, natura/civiltà, est/ovest, europeo/indiano. Se il western classico non aveva dubbi sulla parte che spettava all’europeo in questa dicotomia, Ford rimette in discussione il mito della fondazione della nazione americana: Ethan e Scar, il Cowboy e il Selvaggio, nemici irriducibili, sono in realtà molto più simili di quanto non sembri, entrambi si presentano come nomadi che provengono dal Deserto, entrambi sono dei loser, Ethan perché ha perso una guerra, Scar perché ha perso la propria terra ed è costretto a vivere in una riserva; entrambi sono mossi da un odio implacabile nei confronti dell’Altro e, quando Ethan manifesta il desiderio di uccidere la ritrovata Debbie perché ormai “non è più una bianca” ma è un’indiana sposa dello stesso capo Cheyenne, “l’eroe” senza macchia diventa immagine speculare della sete di vendetta e di sangue che porta Scar a massacrare le famiglie dei pionieri.
Ma, come sa bene chi conosce anche superficialmente l’opera del regista, è la dicotomia degli spazi quella di cui si nutre prevalentemente il cinema fordiano, gli spazi aperti della frontiera e della Monument Valley e gli spazi chiusi, domestici, come la casa di Martha e degli Jorgensen, autentiche oasi e avamposti pionieristici di “civiltà” nel deserto della “barbarie”; lo spazio aperto è quello di Ethan, che dal deserto emerge all’improvviso nella prima sequenza del film e a cui ritornerà nel finale, il personaggio tragico di quest’epopea (insieme a Scar), destinato all’esclusione dagli spazi normati della casa e della città perché borderline, sempre sul confine tra legge e anarchia, morale e rivolta.
Anche Ford, dunque, rilegge criticamente la storia dell’America evidenziando l’irrisolvibile contraddizione che animava alla radice i “Padri Fondatori”, i cowboys di tanto cinema western: costruttori di una patria e difensori della legge da una parte, violenti e insensatamente razzisti all’altra. Un buon motivo per rivedere questo e altri capolavori dell’irlandese con la benda all’occhio sinistro che diceva di sé amo l’aria aperta, i grandi spazi e le montagne e i deserti…girare un western è sempre uno svago per me, parto con la troupe e per settimane e settimane non me ne frega più di niente…
Sentieri selvaggi (The Searchers)
Regia: John Ford
Distribuzione: USA 1956 (col., 119 min.)