Genocidio: una passione europea
della professoressa Maria Palumbo
In tempi bui di inquietanti rigurgiti xenofobi, come quelli che stiamo vivendo, vale la pena ripercorrere ancora una volta la nascita dell’antisemitismo e della teoria della razza che hanno prodotto gli orrori del XX secolo. Lo storico ebreo francese Bensoussan, responsabile del Memoriale della Shoah di Parigi, è autore dell’opera Genocidio: una passione europea del 2006 (ed. it. Marsilio 2009). Questo libro ripercorre alcuni snodi cruciali della cultura europea che hanno portato alla virulenta diffusione dell’antisemitismo, ideologia che affonda le sue radici, come è noto, molti secoli prima della comparsa del terzo Reich.
Bensoussan analizza, in primis, la fase storica che prelude alla nascita della Chiesa Cattolica; il Cristianesimo delle origini, a suo dire, non presentava alcun atteggiamento antigiudaico. Le cose cambiano dal IV secolo in poi quando, dopo l’editto di Milano del 313 d. C., il cristianesimo si afferma come “religio licita” e, successivamente, assume i caratteri di religione di Stato; in questa fase la Chiesa Cattolica vede l’ebraismo come un pericoloso concorrente nella lotta tra le fedi monoteiste e, quindi, ha bisogno di combatterlo con tutte le proprie forze. All’origine dell’atteggiamento antiebraico della Chiesa Cattolica ci sarebbe, però, anche un meccanismo di natura psicologica: l’ebraismo costituisce, infatti, il nucleo originario della religione cristiana – Gesù era ebreo e dunque, come è metaforicamente necessario uccidere il padre per consentire la propria emancipazione (il mito del figlio che uccide il padre per non essere divorato), così il cristianesimo ha dovuto idealmente recidere le proprie radici ebraiche.
Secondo Bensoussan, dal IV al XI secolo la condanna della chiesa cattolica si gioca esclusivamente sul terreno dell’accusa di deicidio (antigiudaismo). La stigmatizzazione dell’ebreo come razza compare nel XII secolo, quando l’abate di Cluny Pietro il Venerabile scrive una violenta invettiva contro il giudaismo, individuando una serie di presunte caratteristiche caratteriali e somatiche che connotano gli ebrei come etnia a sé stante.
Bensoussan ripercorre con dovizia di particolari la letteratura religiosa medievale e moderna, citando una moltitudine di testi che, in modo reiterato ed ossessivo, descrivono l’ebreo come una persona malevola, spregevole e pericolosa, quasi l’incarnazione di Satana. Tale stigmatizzazione ha lasciato le sue tracce anche nell’iconografia: in un’incisione tedesca del 1575, per esempio viene raffigurata una donna ebrea che partorisce due porcellini. L’ebreo è colui che ha fatto il patto col diavolo e che desidera la distruzione di tutto il mondo cristiano: la famigerata teoria del complotto, secondo l’autore, non sarebbe riconducibile all’inizio del ’900 con la diffusione del protocollo dei Savi di Sion, ma è di gran lunga precedente – d’altra parte è storia nota l’ondata di pogrom che accompagnarono la peste del Trecento.
È perciò interessante il riferimento all’opera di Carlo Ginzburg Storia notturna: una decifrazione del sabba, in cui l’autore analizza il fenomeno di progressiva marginalizzazione e persecuzione di lebbrosi, omosessuali, eretici, ebrei e streghe durante la crisi del Trecento. “Come dimostra l’iscrizione scolpita sul portone del cimitero parigino degli Innocenti: ‘Evita l’amicizia di un pazzo, di un ebreo o di un lebbroso’. Nel XIV secolo, nell’Italia del Nord, circola la voce che gli ebrei, aiutati dai lebbrosi (è raro il contrario, poiché i lebbrosi sarebbero sempre manipolati dagli ebrei), stiano avvelenando l’acqua. Nella Spagna cattolica, spiega Carlo Ginzburg, il pregiudizio accomuna ebrei e lebbrosi in quanto membri di una medesima associazione a delinquere. Desiderando sbarazzarsi dei cristiani, il re (musulmano) di Granada si sarebbe, stando alle voci, rivolto agli ebrei. Questi ultimi, sapendo di essere sorvegliati, avrebbero comunicato le istruzioni ai capi dei lebbrosi per avvelenare l’acqua. Convivono in questo modo tre versioni relative a un unico complotto: nella prima si accusano solo i lebbrosi, nella seconda i lebbrosi con gli ebrei, e nella terza, infine, ebrei, lebbrosi e musulmani agli ordini del re di Granada.” (Bensoussan, Genocidio una passione europea, ed. Marsilio versione digitale, pag. 283)
L’ebreo è in qualche modo il precursore della strega, anche essa progressivamente accusata di aver fatto il patto col diavolo. In questo caso entrano ancora una volta in gioco componenti di psicologia collettiva: la precarietà di un’esistenza minacciata costantemente da pericoli oscuri rendeva necessario trovare un capro espiatorio o piuttosto un responsabile sul quale scaricare l’ira della collettività – di qui la caccia alle streghe.
La donna è una minaccia all’ideale di castità e purezza esaltato dalla morale medievale, un essere perfido corrotto che può indurre l’uomo in tentazione. “Mentre nel primo millennio la figura del Maligno era rimasta ancora nell’ombra, tra XII e XV secolo si radica in Occidente la nozione teologica del diavolo. La prima esplosione demoniaca (XI-XII secolo) comincia ad assumere un carattere radicale a partire dal Duecento, e l’immagine del diavolo si trasforma ancora nei due secoli successivi, attraverso l’elaborazione e la lenta definizione di una ‘scienza demoniaca’. Nell’Europa di questo ‘autunno del Medioevo’ scossa dal ricordo della peste nera, al termine di un lungo lavoro attuato dalla Chiesa sulle coscienze, Satana diventa una figura ossessiva. Il Male radicale, chiave delle umane sventure, s’incarna nella figura della strega. (…). Nel Fornicarius, scritto tra il 1435 e il 1437 a Basilea dal frate domenicano tedesco Johannes Nider, troviamo diversi elementi di ciò che sarà in seguito lo stereotipo del sabba: in una cerimonia guidata dall’inizio alla fine dal Maligno, si rende omaggio al Demone, si abiura il Cristo, si profana la Croce e si usano magici unguenti prima di divorare dei bambini. Il tema del bambino ucciso, divorato dopo averne bevuto il sangue, appare come una costante cannibalesca della specie umana. Tuttavia, in questo caso, è l’ebreo e solo lui che incarna, e incarnerà per molti secoli, l’immagine terrificante del padre infanticida e cannibale.” (Bensoussan, op. cit, pagg. 719/20).
Nella storia del passaggio dall’antigiudaismo all’antisemitismo gioca un ruolo fondamentale l’unificazione spagnola, costruita intorno all’ideologia della “limpieza de sangre”. La Spagna, fin dalla conquista del regno di Granada (1492), ha attuato una sistematica operazione di pulizia etnica, di cui sono stati vittime sia i musulmani sia gli ebrei, costretti ad abbandonare il loro paese. Il concetto di limpieza de sangre rimanda ad una connotazione di tipo razziale: l’ebreo è portatore per sua stessa natura della malvagità, quindi, anche se convertito, continua ad essere una creatura infida e malefica da combattere con tutte le forze. Paradossalmente, sostiene l’autore, dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna, essi risultarono, nell’immaginario collettivo, ancora più pericolosi.
In Germania le tracce della paranoia antiebraica affondano le loro radici non solo nel Medioevo, ma anche nelle accese invettive di Lutero in piena età moderna. La chiesa riformata si è scagliata ripetutamente contro gli ebrei, identificandoli con il male assoluto: la particolare virulenza del fenomeno nella cultura tedesca si spiegherebbe guardando alla storia stessa particolarmente tormentata della Germania, dilaniata dalle guerre di religione che si concludono con il bagno di sangue della guerra dei trent’anni.
L’Illuminismo e la Rivoluzione francese pongono fine ad ogni discriminazione, ma si tratta di una parentesi di breve durata. Con la Restaurazione e le critiche al concetto di egualitarismo, la cultura antilluminista degli inizi del XIX secolo nasconde, infatti, nelle sue pieghe tratti pericolosamente reazionari.
Bensoussan prende in esame alcuni teorici della Restaurazione come de Maistre il quale, nell’opera Le serate di San Pietroburgo contesta l’egualitarismo di matrice illuminista, foriero solo di caos e disordine, e la teoria del contratto sociale di Rousseau: “Chi ha sufficientemente studiato questa triste natura sa che in genere l’uomo, se lasciato a se stesso, è troppo malvagio per essere libero. (…) Nel vasto campo della natura vivente regna una violenza manifesta, una specie di rabbia decretata che arma tutti gli esseri in mutua funera. Appena oltrepassate le soglie del regno dell’insensibile vi trovate di fronte al decreto della morte violenta scritta sui confini stessi della vita. Già nel regno vegetale si comincia ad avvertire la presenza di questa legge: dall’immensa catalpa all’umile graminacea, quante sono le piante che muoiono e che sono uccise? Ma appena entrate nel regno animale, la legge assume di colpo una spaventosa evidenza. Una forza nello stesso tempo nascosta e palpabile si rivela continuamente occupata a rendere forzatamente vulnerabile il principio della vita: in ogni grande divisione della specie animale essa ha scelto un certo numero di animali incaricandoli di divorare gli altri; così esistono insetti da preda, rettili da preda, uccelli da preda, pesci e quadrupedi da preda. Non vi è un solo istante in cui un essere vivente non sia divorato da un altro; al di sopra di queste numerose razze animali è posto l’uomo la cui mano distruttrice non risparmia alcun essere vivente: egli uccide per nutrirsi, uccide per vestirsi, uccide per ornarsi, uccide per attaccare, uccide per difendersi, uccide per istruirsi, uccide per uccidere. Re superbo e terribile ha bisogno di tutto e nulla gli resiste. ” (Bensoussan, op. cit. pag. 264)
Le posizioni anti-illuministe dell’inizio dell’Ottocento non portano, tuttavia, ancora con sé le caratteristiche peggiori della teoria della razza, che si fonda sulla cosiddetta ipotesi poligenista (le razze umane apparterrebbero a specie completamente diverse fra loro). Già lo stesso Gobineau nel Saggio sulla disuguaglianza delle razze ritiene comunque che bianchi, gialli e neri, benché con caratteristiche molto diverse tra loro e gerarchicamente ordinati, siano tutto sommato esseri umani; non compare ancora, inoltre, alcun riferimento ad una presunta razza semita.
In età romantica gli intellettuali tedeschi hanno ripetutamente insistito sul primato della Germania e sulla missione civilizzatrice del popolo tedesco – basti pensare a poeti come Schiller, von Kleist, Novalis: “Nel 1834, alla fine della sua Storia della religione e della filosofia in Germania, Heinrich Heine scriveva: ‘Il cristianesimo ha solo parzialmente ammansito quell’ardore brutale e bellicoso dei germani, senza però mai riuscire a sradicarlo. Quando la croce, questo talismano che lo tiene incatenato, si spezzerà, allora strariperà di nuovo nella sua virulenza, animando la ferocia di questi ex guerrieri, l’esaltazione frenetica dei Berserker, che ancor oggi viene cantata dai poeti del Nord. Arriverà, purtroppo il giorno in cui le antiche divinità guerriere riemergeranno dai loro sepolcri, scrollandosi di dosso la coltre di polvere secolare; Thor si alzerà con il suo gigantesco martello demolendo le cattedrali gotiche (…). Quando sentirete questi tumulti state attenti miei cari vicini di Francia (…). Il tuono in Germania è una verità sacrosanta: non è molto lesto, poiché si avvicina lentamente; però giungerà, e quando sentirete rimbombare un boato come non ne avete mai sentiti nella storia del mondo, sappiate che il tuono tedesco ha finalmente raggiunto il suo scopo. Dopo questo boato, le aquile cadranno dal cielo e i leoni, nei più remoti deserti africani, scapperanno con la coda tra le gambe per nascondersi nelle loro tane. In Germania si consumerà un tale dramma che la Rivoluzione francese, al confronto, sembrerà una bazzecola. È vero che oggi tutto è calmo, e anche se vedete qualcuno scaldarsi un po’ più del dovuto non pensiate che siano loro gli attori assunti per quella rappresentazione. Questi sono solo dei semplici cagnolini rognosi, che si dimenano in un’arena ancora vuota, abbaiando e ringhiando qua e là, prima dell’arrivo dei gladiatori che combatteranno fino alla morte’”. (Bensoussan, op. cit. pag. 604) Un passo terribilmente profetico scritto dal grande poeta tedesco di famiglia ebrea convertitosi al Cristianesimo.
La filosofia tedesca del XIX sec., a parere di Bensoussan, non è esente da colpe: Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca, incitando i tedeschi a resistere all’invasione delle armate napoleoniche, contrappone le caratteristiche sane dei Germani, che nei secoli hanno preservato la loro integrità etnica, linguistica, culturale, al popolo francese portatore di una falsa ideologia cosmopolita. Hegel negli scritti teologici giovanili descrive gli ebrei come un popolo che si è sempre isolato dal flusso della storia. Nei Theologische Jugendschriften, Hegel si lamenta che ai tedeschi siano stati inculcati miti stranieri, favole di un popolo “l cui clima, leggi, natura e interessi ci sono estranei, la cui storia non ha alcun rapporto con noi. Nell’immaginario del nostro popolo vivono un Davide e un Salomone, mentre gli eroi della nostra patria sonnecchiano nei libri degli studiosi” (Bensoussan, op. cit. pag. 623). In questa spasmodica ricerca di tracce antisemite, tuttavia, l’autore tende ad estrapolare alcune frasi dal contesto in cui sono inserite, attribuendo a Fichte e ad Hegel istanze di tipo xenofobo del tutto ingiustificate, dal momento che nella prima metà dell’Ottocento la parola razza sta ad indicare un concetto di natura culturale: è, cioè, sinonimo di popolo.
Le cose cambiano con la seconda metà dell’800, quando l’imperialismo necessita di un’ideologia volta a giustificare la conquista e la politica di rapina perpetrata dalle nazioni europee. Come già efficacemente individuato da Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, la teoria della razza si nutre del darwinismo sociale per applicare i concetti di selezione naturale e lotta per la sopravvivenza alle razze umane; guerra e violenza vengono sdoganate come elementi necessari alla costruzione di un nuovo ordine mondiale, in cui si assisterà al legittimo predominio del più forte. La sopraffazione perpetrata sui popoli più deboli viene, dunque, giustificata nella misura in cui essi nella storia non sono riusciti a raggiungere i livelli di progresso e di sviluppo conseguiti dall’uomo bianco: “l’Africa è stata molto rapidamente considerata come il laboratorio sperimentale di questa visione di un mondo in cui i ‘primitivi’ devono cedere il passo agli ‘evoluti’. Il continente nero rappresenta in questo senso il rifugio di un’umanità sottosviluppata, arretrata, molto diversa rispetto all’India che invece affascina, dato che viene percepita come la culla del mondo ariano. Nel 1863 William Winwood Reade, un antropologo britannico amico di Darwin, pubblica Savage Africa. È probabile, scrive, che un giorno gli africani ‘siano sterminati. Noi dobbiamo imparare a guardare a questo risultato freddamente. Esso illustra la legge benefattrice della natura, secondo la quale il debole deve essere divorato dal più forte’” (Bensoussan, op. cit. pag. 423).
Come è noto, la teoria della razza annovera esponenti di spicco anche nella cultura francese già dalla metà dell’800 e per tutto il XX sec: “la visione di Vacher de Lapouge segue le fila di questa concezione del mondo in cui, invece di fare la storia, ne siamo manipolati. Il determinismo razziale appare dunque come la figura laicizzata del destino, come la maschera che sostituisce un Dio assente dal mondo”(Bensoussan, op. cit. pag. 423). In questo contesto fa la sua comparsa la teoria poligenista, che pretende di disporre in senso gerarchico razze biologicamente diverse tra loro. Inutile precisare che la scienza ha ampiamente smentito tale teoria, sostituendola con la tesi cosiddetta “Out of Africa”: la specie umana è una sola, proviene dall’Africa e da qui si è diffusa nel resto del mondo, come dimostra in modo incontrovertibile il DNA – a voler essere precisi quindi, nonostante gli sforzi degli odierni razzisti, siamo tutti africani.
Sia il concetto di razza ariana sia quello di razza semita sono, pertanto, del tutto destituiti di fondamento scientifico; essi nascono da un’esigenza ancora una volta di natura ideologica – la cultura cristiana occidentale intende ricostruirsi una verginità, manipolando la sua storia delle origini e sforzandosi di privare la figura di Gesù della sua componente di ebreo. Compaiono immagini di un Cristo biondo con gli occhi azzurri, assurdamente destituite di fondamento storico, per attribuire a tutti i costi a Gesù origini ariane e tracciare una cesura definitiva tra ebraismo e cristianesimo. Ecco fare la sua comparsa la fantasiosa teoria di una razza bianca proveniente dagli altipiani dell’antica Persia (da cui l’attuale nome Iran che significa terra degli arii), oppure addirittura dalle vette dell’Himalaya dove, a contatto con le sole divinità celesti e quindi pura ed incontaminata, si sarebbe poi propagata in Occidente. Da tale stravagante cumulo di assurdità campate in aria si desume, pertanto, che Cristo fosse ariano e non ebreo.
Alla fine dell’800 si propaga la teoria del complotto ebraico, che i servizi segreti russi diffondono mediante il falso protocollo dei Savi di Sion. L’autore mette bene in evidenza come non fosse possibile ricavare alcun senso logico dal cumulo di vaneggiamenti alla base della teoria della razza, di cui si nutrirà l’ideologia nazionalsocialista: era, pertanto, impossibile contrastarla sul piano delle argomentazioni. Il celebre storico Mommsen tentò di opporsi alla deriva reazionaria che andava crescendo in Germania, ma senza successo, dal momento che per qualunque persona di ogni ceto sociale, ma soprattutto di scarsa cultura, era molto semplice e rassicurante riconoscersi come membro di una categoria di eletti.
Di questa follia collettiva sono vittime sacrificali anche i malati, i disabili, esseri che si sostiene essere a stento umani, ma che gravano sulle spalle della comunità: “1650 malati [di mente] nel 1924, 2600 nel 1937, vale a dire un incremento di 1000 malati in circa 10 anni Se viene data un’indicazione importante sul futuro della razza bianca si deve considerare quanto pesi questo incremento sul bilancio pubblico; il ricovero annuale di un alienato equivale a 7665 Franchi: si immagini ciò che si potrebbe ottenere con una tale somma se fosse impiegata per esempio per l’infanzia per le abitazioni. Faccio notare che un malato che resta 10 anni nell’asilo sarà costato la collettività circa 80000 Franchi e allora io mi sento in diritto di chiedermi se non debbano essere delle riserve da fare su un Progresso che senza guarire l’ammalato prolunghi la sua miserevole esistenza per così tanti anni. Sindaco di Lione 1937” (Bensoussan, op. cit. pag. 322).
Lo sdoganamento della morte di massa verificatosi con il 1° conflitto mondiale, i campi di battaglia coperti di cadaveri, la spersonalizzazione e demonizzazione del nemico hanno fatto il resto. La pregevole ricostruzione storica di Bensoussan pecca, tuttavia, di scarsa aderenza alla realtà nelle conclusioni, che in verità nel testo non sono esplicitate. Egli ritiene, infatti, che l’antisemitismo non sia stato realmente debellato, ma si sia convertito in antisionismo: come una volta era il popolo ebraico ad essere considerato l’incarnazione di Satana, così oggi lo stato d’Israele viene descritto come il male assoluto. Bensoussan accusa gli arabi di fomentare l’odio verso gli ebrei: per tali affermazioni ha subito anche un processo per incitamento all’odio razziale dopo aver dichiarato che “nelle famiglie arabe, tutti sanno, ma nessuno ammette come l’antisemitismo sia trasmesso con il latte della madre”. Queste parole sono state pronunciate nel corso di un dibattito radiofonico nel dicembre 2015.
Oggi si sente spesso sostenere l’equazione antisionismo/antisemitismo, avallando in tal modo paradossalmente quella stessa confusione tra i concetti di popolo, nazione, religione e razza che sono stati alla base della follia nazista. D’altra parte questa confusione è implicita nella stessa legge del ritorno del 1950, che garantisce la cittadinanza israeliana ad ogni persona di religione ebraica, purché disponibile a trasferirsi in Israele con l’intenzione di viverci e di prestare servizio militare. Esprimere un’opinione più o meno legittima in merito alle scelte politiche dello stato di Israele non equivale assolutamente ad essere antisemita: ad esempio è come se, nel criticare la politica di Trump, si fosse in toto antiamericani. La lezione dell’antisemitismo del XX secolo deve, piuttosto, servirci per prevedere ed evitare futuri bagni di sangue. Oggi il capo espiatorio, il male assoluto, l’incarnazione del demonio, non è l’ebreo ma l’immigrato, il diverso, l’estraneo: colui che vuole stravolgere i nostri valori, le nostre tradizioni. Vogliono invaderci, vogliono convertirci, occupare le nostre case, i nostri spazi, i nostri posti di lavoro; ancora una volta il meccanismo psicologico è sempre lo stesso: in un’epoca di crisi profonda e di recessione economica è più semplice scaricare la propria rabbia contro l’anello debole della catena, colui che nell’immaginario collettivo costituisce la causa di tutti i nostri Mali.
Ebrei, lebbrosi, streghe, infedeli, eretici, malati, omosessuali, immigrati; alla base ritorna l’eterno ideale millenaristico di una palingenesi, una società rinnovata che potrà nascere grazie all’espulsione degli elementi di disturbo di turno. Purtroppo davanti alla storia è molto facile essere affetti da presbiopia: riconosciamo gli orrori degli accadimenti ormai lontani, ma non cogliamo le insidie, i segnali di pericolo che si annidano nel presente. È facile indignarsi per i genocidi del passato, più scomodo riconoscere quelli che oggi sono sotto i nostri occhi, perché ci costringerebbero a prendere una posizione. I benpensanti di oggi che si commuovono davanti ai film sulla Shoah, inneggiano all’affondamento dei barconi carichi di immigrati, così come meno di cento anni fa gli stessi benpensanti giravano la testa dall’altra parte, mentre il proprio vicino di casa veniva deportato. Oggi obiettivo del tiro al bersaglio delle nuove destre xenofobe e razziste non è più l’ebreo. Senz’altro molti cosiddetti “fascisti del terzo millennio” hanno posizioni antisemite e negazioniste (ad Auschwitz c’erano i cinema…), ma questo morbo che ha già provocato tanti orrori meno di un secolo fa, oggi può riprendere nuova linfa grazie all’odio verso gli extracomunitari.
Non c’è miglior modo per concludere questa riflessione che affidarla alle lucide e profetiche parole di Hannah Arendt, pensatrice scomoda, ebrea avversa al Sionismo, poco amata dalla sua stessa comunità, che così scrive ne La banalità del male: “le ragioni particolari per cui non è da escludere che qualcuno faccia un giorno ciò che hanno fatto i nazisti, sono ancor più plausibili. L’enorme incremento demografico dell’era moderna coincide con l’introduzione dell’automazione, che renderà ‘superflui’ anche in termini di lavoro grandi settori della popolazione mondiale; e coincide anche con la scoperta dell’energia nucleare, che potrebbe invogliare qualcuno a rimediare a quei due pericoli con strumenti rispetto ai quali le camere a gas di Hitler sembrerebbero scherzi banali di un bambino cattivo. È una prospettiva che dovrebbe farci tremare.” (Arendt, La banalità del male, ed. Feltrinelli 1993 pag. 279)