L’affaire Moro
Uno dei casi più gravi, che ha segnato in maniera indelebile la storia della nostra repubblica, è il caso Moro (o l’ “affaire Moro”, dal titolo di un famoso libro di Leonardo Sciascia). Molti ancora sono i nodi e i punti oscuri che avvolgono questa vicenda, molte le responsabilità non ancora venute alla luce. E allora cercheremo di ripercorrere quei drammatici giorni di paura e angoscia, di flebile speranza e infine di morte; ma soprattutto di errori e negligenze.
Prima di avventurarci in questo viaggio, però, è necessaria una piccola contestualizzazione.
Siamo nel 1978, nel pieno degli anni di piombo. Lo stato democratico, che era stato attaccato nel 1972 da forze di estrema destra col golpe Borghese, ora si trovava a combattere con il terrorismo rosso. Memore anche dell’11 settembre 1973 (data in cui il governo di Salvador Allende in Cile viene rovesciato da Augusto Pinochet) e consapevole dei rischi che il sistema democratico italiano corre, il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, meditò il compromesso storico. In merito al compromesso storico vi sono state molte letture deviate e devianti: come spiega lo stesso Berlinguer “il compromesso storico” non consisteva in un patto a due tra PCI e DC, ma una proposta che si rivolgeva a tutti i partiti (tra i quali ovviamente la DC era l’interlocutore maggiore), per “evitare che si crei una spaccatura nel popolo italiano e nello schieramento politico italiano, in quanto riteniamo che questo può essere un fatto molto pericoloso per le sorti della democrazia italiana” (E. Berlinguer).
Colui il quale all’interno della DC colse questa proposta, condividendone gli intenti e comprendendone la necessità, fu proprio Aldo Moro, che anni prima aveva contribuito alla nascita del centrosinistra, aprendo ai socialisti. Iniziarono dunque degli incontri tra Moro e Berlinguer per definire le modalità dell’accordo. Fino ad allora il PCI aveva sostenuto vari governi Andreotti, monocolori DC, mediante l’astensionismo sui voti di fiducia; col compromesso storico venne prevista la nascita di un nuovo governo, sempre guidato da Giulio Andreotti e sempre composto da ministri esclusivamente democristiani (la destra DC si era fermamente opposta all’ingresso di comunisti nel governo, avallando anche le preoccupazioni americane), a cui il PCI avrebbe votato la fiducia, con la promessa che nei governi successivi ci sarebbero stati anche membri comunisti. Nel frattempo le Brigate Rosse non stettero ferme a guardare. Dopo aver compiuto già altri sequestri decisero di alzare il tiro. Scelsero di non colpire personaggi con ruoli politici attivi, come Andreotti, Cossiga (ministro dell’interno) o Fanfani (presidente del Senato), nei confronti dei quali il livello di allerta per garantirne l’incolumità era molto elevato, ma qualcuno che avesse un ruolo più defilato e che rappresentasse comunque lo Stato che le Brigate Rosse volevano abbattere: non vi era figura più adatta di quella di Aldo Moro. E così il 16 Marzo 1978, giorno in cui la Camera doveva votare la fiducia al nuovo governo, un commando di brigatisti rapì Moro, proprio mentre stava per recarsi in Parlamento: un colpo pragmaticamente parlando assolutamente geniale, in quanto di fatto rompeva il compromesso storico, sottraendo al PCI il suo unico interlocutore. Vediamo anche grazie all’ausilio di alcune riproduzioni tratte da Mixer, programma di Giovanni Minoli, del 1994 le modalità con le quali avvenne il rapimento.
Le BR individuarono come luogo ideale via Fani, angolo con via Stresa, perché del percorso fatto dalle auto di Moro, era il punto meno affollato (l’unico punto potenzialmente pericoloso era un negozio di fioraio, al cui proprietario prontamente erano state manomesse le ruote del suo furgoncino, per impedirgli di lavorare). Come vediamo dalle immagini il piano si svolse in queste fasi:
- Una donna, Rita Algranati, all’arrivo delle auto di Moro attraversa la strada per rallentarle
- A quel punto la macchina guidata da Moretti ha il tempo di anteporsi alle auto di Moro
- All’angolo con via Stresa Moretti frena bruscamente causando un tamponamento. In quell’istante, quattro uomini con la divisa dell’Alitalia posizionati sul lato destro di via Fani aprono il fuoco contro la scorta.
- Uccisa la scorta, una vettura situata in via Stresa procede in retromarcia, vi viene caricato Moro, e riparte.
Da qui iniziarono una serie di interventi politici e investigativi, che non avrebbero permesso(delle volte in buona, altre in cattiva fede) di salvare la vita di Moro. Cominciamo dalla politica.
Le forze politiche si schierarono in modo differente tra loro e vennero a crearsi due fronti, il fronte della fermezza e quello della trattativa. Al primo fanno capo DC, PCI e PRI (partito Repubblicano Italiano, con Ugo La Malfa), mentre al secondo Craxi e il PSI (Partito Socialista Italiano).
In realtà vi furono due linee della fermezza, quella di chi riteneva in buona fede che qualsiasi cedimento da parte dello Stato avrebbe portato il Paese alla rovina , e quella di chi colse la palla al balzo per eliminare un personaggio politicamente molto scomodo. Chiariamo però bene questo punto: finora non vi sono prove per poter affermare che vi sia stato un mandante politico (molti ipotizzano addirittura un coinvolgimento della CIA , che sempre secondo questa teoria avrebbe avuto contatti con le Brigate Rosse per rapire Moro, rompere il compromesso storico, e così impedire l’ingresso dei comunisti nel governo, il che per ora è solo fantascienza).
Fatta questa fondamentale premessa, dobbiamo dire che però è innegabile una convergenza di interessi intorno al caso Moro e le prove di questa furono le negligenze che gli organi investigativi commisero. Ritardi, come quello del passaggio di una semplice comunicazione della scoperta di una tipografia sospetta a via Foa (dove i brigatisti stampavano i comunicati), dal nucleo investigativo al nucleo operativo ,che richiese addirittura un mese . Fraintendimenti, come quello del covo di via Gradoli: addirittura in questo caso le forze operative furono capaci di andare a cercare un covo delle Brigate Rosse nel paesino di Gradoli in Lazio, senza accorgersi dell’esistenza di via Gradoli a Roma, dove era situato tale covo, che naturalmente le Brigate Rosse ebbero tutto il tempo di lasciare. Ecco, di fronte a ciò solo un illuso potrebbe ritenere che queste fossero state delle mancanze in buona fede, e la cosa si spiega se pensiamo che la maggior parte delle forze operative ad alti livelli che intervennero nel caso Moro facevano parte della Loggia P2. È un ulteriore prova di queste convergenze il falso comunicato delle Br che affermava che il cadavere di Moro si trovasse nel lago della Duchessa: le Brigate Rosse hanno sempre negato di avere emesso questo comunicato e ancora vi sono misteri in relazione a chi realmente l’abbia scritto. L’epilogo è tristemente noto, il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro venne ritrovato in via Fani a metà strada tra Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana e via delle Botteghe Oscure, sede del Partito Comunista Italiano. Si era deciso dunque alla fine di mantenere la linea della fermezza. Come abbiamo visto Moro avrebbe potuto essere salvato basandosi su strumenti investigativi ordinari e probabilmente non ve ne è stata la volontà. Ciò non toglie che i fatti hanno però dimostrato che nel momento in cui lo Stato non ha ceduto, le Brigate Rosse si sono autodistrutte, perché non avrebbero potuto più compiere un colpo più alto, perché più in alto di Moro non c’era nessuno. Finora abbiamo analizzato la faccenda da un punto di vista politico, da un punto di vista investigativo, ma non dobbiamo mai dimenticarci che dietro a questo caso c’è il dramma di un uomo. Un uomo che è stato strappato via dalle mani della sua famiglia. E forse questa era la cosa che gli pesava di più. Vediamo allora, attraverso le sue lettere, come Moro reagì e cercò in ogni modo di salvarsi, non tanto per paura della morte – Moro era un cristiano e ciò lo aiutava ad affrontare questa paura – ma perché la morte significava lasciare la sua famiglia in un momento difficile. Quando pensiamo alla nostra morte, credo automaticamente pensiamo ad un nostro congedo dal mondo, al quale non abbiamo null’altro da lasciare che il nostro ricordo. Chi vorrebbe andarsene lasciando persone care ad affrontare una situazione difficile, senza aver avuto il tempo di risolverle? Ebbene,questo era lo stato d’animo di Moro.
Lo dice chiaramente in una lettera recapitata il 4 aprile a Benigno Zaccagnini, segretario della Dc . “E’ peraltro doveroso aggiungere che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata, e motivata riluttanza ad assumere la carica di presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me.” E sempre nella stessa lettera fa delle accuse politiche molto gravi: ” moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui. “ E ancora ” si discute qui, non in astratto diritto, ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri in ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma qualche concessione non solo è qua, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la DC che, nella sua sensibilità, ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sblocco.”
La condanna nei confronti della Dc è sancita in quest’altra lettera, indirizzata sempre a Zaccagnini: “Caro Zaccagnini, ecco, sono qui per comunicarti la decisione cui sono pervenuto nel corso di questa lunga e drammatica esperienza ed è di lasciare in modo irrevocabile la Democrazia Cristiana. Sono conseguentemente dimissionario dalle cariche di membro e presidente del Consiglio nazionale e di componente la direzione centrale del partito .”
Ma la lettera che vorrei pubblicare interamente è l’ultima, recapitata ad Eleonora Moro il 5 maggio, quattro giorni prima del ritrovamento di suo marito. Prima di lasciarvi, con le parole di Moro, vorrei ricordare che per Aldo Moro è stata intrapresa una causa di beatificazione, per come con spirito cristiano e con rassegnazione ha accettato la prova cui è stato sottoposto, e per come, nonostante tutto non abbia mai perso la speranza in Dio.
“Mia dolcissima Noretta,
dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell’incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna, Mario, il piccolo non nato, Agnese, Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto.
Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta.
Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo”
Ciro Savarese IIH