ApocaypseVietnam#8:McNamara ci spiega cos’è stato il Vietnam e perché gli americani hanno sbagliato tutto-The Fog of War (E.Morris, 2003)

del prof. Lucio Celot

 

Abbiamo sbagliato, terribilmente sbagliato.
Lo dobbiamo alle generazioni future spiegarne i motivi.
Credo davvero che abbiamo fatto un errore
non di valori e intenzioni, ma di giudizio e capacità.

Robert McNamara è stato uno dei protagonisti indiscussi della storia americana nella seconda metà del secolo scorso: ex presidente della Ford, docente a Harvard, Segretario alla Difesa durante la presidenza Kennedy e la crisi dei missili di Cuba, ricoprì la stessa carica anche durante il mandato di Johnson e la guerra nel Vietnam. Si dimise nel 1968 quando, in disaccordo con il presidente Johnson, si rese conto che quella guerra non andava inquadrata nel contesto della guerra fredda e della teoria del “domino” ma che si trattava di una guerra civile in cui gli USA non avrebbero mai dovuto intromettersi. Concluse la sua brillante carriera politica come Presidente della Banca Mondiale fino al 1981; è morto nel 2009.

Un’immagine di Robert McNamara durante la presidenza Johnson

Oscar 2004 come migliore documentario, scelto per la conservazione dalla Biblioteca del Congresso USA, presentato fuori concorso a Cannes 2003, The fog of war è il distillato di circa trenta ore di interviste ridotte a undici lezioni sulla guerra, corredate da immagini, filmati di archivio e registrazioni audio nelle quali McNamara ripercorre le fasi cruciali della crisi dei missili cubani nel1962, dei bombardamenti su Tokyo durante la seconda guerra mondiale e, ovviamente, della guerra in Vietnam, di cui è stato uno dei principali sostenitori e “architetti”. Ma, va detto subito, The fog of war va “maneggiato con cura” perché chi è seduto davanti alla macchina da presa e racconta in prima persona uno dei momenti più delicati e complicati della storia degli USA è uno che di quell’establishment faceva parte; dunque, le sue undici “lezioni” di politica, storia e diplomazia vanno prese cum grano salis e ben ponderate a debita distanza critica, soprattutto nei passaggi in cui McNamara, ripreso in primissimo piano, si commuove, prolunga i suoi silenzi e sembra chiedere empatia allo spettatore, come nella sequenza in cui racconta le fasi successive all’attentato di Dallas a JFK, dagli spari nella Dealey Plaza fino alla scelta del punto preciso dove seppellire la salma nel cimitero di Arlington. Per quanto sia cosa nota che nel 1963, prima della morte di Kennedy e del colpo di stato che rovesciò il presidente Diem in Vietnam, McNamara aveva già consigliato l’amministrazione USA di ritirare i 16.000“consiglieri militari” (che eufemismo!) presenti nel paese, non dobbiamo dimenticare che nei cinque anni successivi egli fu l’eminenza grigia di Johnson e, a partire dal cosiddetto “incidente del Tonchino” del ’64, tutte le decisioni più importanti sulla gestione della guerra furono prese da lui, dall’invio di altri 45.000 marines nel 1965 (gli effettivi arriveranno a più di mezzo milione), all’uso dei defolianti (il micidiale agent orange) che causarono migliaia di morti anche decenni dopo la fine della guerra, fino alla scelta strategica denominata “Rolling Thunder”, cioè la campagna di bombardamenti sul Vietnam del Nord allo scopo di fare cessare l’aiuto militare ai guerriglieri Vietcong.
L’impressione generale è quella di una tardiva autoassoluzione basata su principi discutibili: “compiere il male per fare il bene” (lezione 9), “la razionalità non basta” (lezione 2), “il senso delle proporzioni in guerra” (lezione 5) fino all’immancabile e hobbesiano “l’immutabilità della natura umana” (lezione 11). Alternato a immagini di repertorio e a quelle delle tessere del domino che cadono a cascata su una mappa dell’Indocina, accompagnate dalla musica di Philip Glass, il racconto di McNamara ha certamente il pregio della partecipazione emotiva del protagonista ma suona, in più occasioni, decisamente ipocrita: 58.000 americani morti, una generazione spazzata via e più di tre milioni di vittime vietnamite tra soldati e civili sono un’enormità che non può essere spiegata ricorrendo alla metafora della “nebbia della guerra”, l’impossibilità cioè di giudicare moralmente la condotta dell’uomo in guerra, esperienza in cui l’imponderabile fa sempre la sua parte e in cui “saltano” tutte le categorie razionali del tempo di pace. “Se avessi saputo che l’agent orange avrebbe provocato tutti quei danni non ne avrei mai autorizzato l’uso, è stato un crimine di guerra”: un po’ poco per chi aveva nelle mani le sorti di una guerra combattuta ai confini di Russia e Cina in piena guerra fredda; ma almeno, in questa occasione, McNamara ha l’onestà di dire le cose come stanno. Pacato, riflessivo e brillante nell’eloquio ma impenetrabile nei primi piani di Morris, l’ex Segretario alla Difesa elabora una sua, personalissima, “filosofia della guerra” sempre in bilico tra razionalità e ragion di stato e, al contempo, prova a fare i conti con i fantasmi che – immaginiamo e speriamo – hanno popolato tutta la sua seconda vita, ricca di successo e notorietà: la cornice formale e il prodotto finale convincono, lui decisamente meno.
 
The fog of war (id.)
Regia: Errol Morris
Distribuzione: USA 2003 (b/n, col., 95’)

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