I classici da rivedere #2: Zelig, l’uomo che voleva essere tutti gli uomini – Zelig (W.Allen, 1983)

del prof. Lucio Celot

Un’opera che vale più di dieci saggi di storia del Novecento. La trama del film, anzi del mockumentary, di Allen è nota: tra gli anni ’20 e ‘30 a New York fa scalpore la vicenda di un uomo, Leonard Zelig (Woody Allen), affetto da una strana malattia che lo fa trasformare, fisicamente e “culturalmente”, in chi gli sta vicino. La patologia che fa di Zelig un vero e proprio camaleonte umano è incomprensibile ai luminari della scienza dell’epoca; solo una psichiatra, Eudora Fletcher (Mia Farrow), intuisce che il disagio di Zelig è l’estremizzazione del meccanismo elementare di adattamento tra uomo e ambiente che permette al soggetto di realizzare l’equilibrio dinamico con il mondo circostante.

Tutto il film ruota attorno alla cura che la dottoressa Fletcher mette in atto per ricostruire la personalità di Zelig; ma tutto il film è, altresì, un vero e proprio saggio sulle aberrazioni del Novecento.

La condizione patologico-imitativa di Zelig è la malattia del secolo, la malattia dell’uomo-massa: l’anonimato, la perdita dell’identità. Nero tra i neri, cinese tra i cinesi, medico tra i medici, indiano tra gli indiani e via dicendo, Leonard Zelig è la rappresentazione filmico-narrativa del Si heideggeriano e della malafede sartriana: in un contesto storico-esistenziale in cui il soggetto è “gettato” in una pluralità di contesti che richiedono la frammentazione dell’io in tanti io molteplici, le risposte possibili sono due. Una è quella del Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila di Pirandello: il rifiuto della maschera, la fuga da ogni tentativo di categorizzazione sociale o esistenziale, la pazzia. L’altra è quella di Zelig: rinunciare al proprio e assumere il Si impersonale (si pensa, si dice, si fa…), fuggire da se stessi recitando (in malafede, appunto) una serie di ruoli che ci conferiscono, sia pure artificialmente e dall’esterno, una qualche identità.

Il conformismo di Zelig è il terreno di coltura dei regimi totalitari. Allen, in ottanta minuti, riassume per immagini Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt: quale contesto politico-sociale può, per uno come Zelig, essere migliore dei totalitarismi novecenteschi, con il loro uso martellante della propaganda teso a soddisfare il bisogno di sicurezza dell’europeo degli anni’20 e ’30? Quale uomo potrebbe meglio di Leonard Zelig apprezzare un sistema in cui il pensiero critico deve essere totalmente spento e tacitato in cambio di una completa deresponsabilizzazione del soggetto? La banalità del male, ci dicono Allen e la Arendt, sta tutta qui, in coscienze che funzionano mimeticamente, riempiendosi di contenuti decisi da altri e conformandosi a valori imposti propagandisticamente.

Non a caso, la geniale finzione di Allen è interamente costruita a partire dall’uso pervasivo dei media. In Zelig c’è tutto: il finto documentario e il vero documento d’epoca, abilmente montati; i titoli scandalistici dei giornali che fanno di Zelig un eroe o un delinquente, a seconda dei casi; le riprese nascoste delle sedute con la dottoressa Fletcher; false registrazioni delle trance ipnotiche in cui Zelig cade indotto dalla stessa psichiatra; false foto d’epoca; addirittura una falsa fiction che racconta la “vera” (?) storia di Zelig. Per non parlare delle vere interviste a personaggi del calibro di Susan Sontag, Bruno Bettelheim e Saul Bellow (un premio Nobel…) che parlano di Zelig come se fosse un personaggio realmente esistito: una vera e propria strategia di veridizione che consiste nel dire il falso per convincere del vero.

Tanto che, alla fine, camaleonti siamo anche noi spettatori, che accettiamo con leggerezza (e un pizzico di inquietudine) il pactum che Allen ci propone: perché il film funzioni – e funziona, eccome se funziona – ci deve essere una sinergia tra ciò che sappiamo (è tutto falso) e ciò che crediamo (è tutto vero, anche Zelig che cammina sui muri, novello Gregor Samsa), e questo contratto tra noi e il regista, che accettiamo ogni volta che ci sediamo in una sala, ci rafforza nell’assunto fondamentale del cinema, “il credo nell’arte come Falso”. Non è un caso che con Zelig ci divertiamo pur sapendo da subito che qualcuno ci sta prendendo in giro…

P.S.: la battuta memorabile: Devo seguire un corso sulla masturbazione, se faccio tardi iniziano senza di me…

 

Zelig (id.)

Regia: Woody Allen

Distribuzione: USA 1983 (b/n, col., 79 min.)

Un pensiero su “I classici da rivedere #2: Zelig, l’uomo che voleva essere tutti gli uomini – Zelig (W.Allen, 1983)

  • 29 Novembre 2022 in 20 h 51 min
    Permalink

    Che grande recensione, come al solito. Devo vederlo subito

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.